Can We Really Party Today, Jonathan? by vittorio bongiorno

Jonathan Wilson live a Bologna, 11 aprile 2014

 

C’è un tizio all’ingresso che mi dà un fogliettino con scritto “AVVISO: invitiamo il gentile pubblico presente in sala a non scattare foto o fare riprese video al fine di non disturbare la visuale delle persone sedute nelle file dietro. È altresì severamente vietato l’utilizzo del flash. Grazie per la collaborazione”.

Ci sono poltrone troppo comode per un concerto di rock psichedelico.

C’è un tipo accanto a me che allunga le gambe e si mette comodo e dice “Facciamoci questo bel trippone e poi a nanna”.

C’è un organo registrato che suona per dieci minuti in penombra, poi entrano loro cinque e attaccano l’inizio strumentale di “Fanfare”: piano e batteria suonati in punta di piedi dall’ottimo Jason Borger al piano, e dall’immenso Richard Gowen alla batteria. Sono tutti vestiti come l’ultima volta che li ho visti dal vivo, sei mesi fa, le stesse camicie a scacchi e gli stessi jeans, e sembra che siano qui per caso, passavano di qua e si sono fermati a suonare.

C’è un suono sospeso nell’aria, tra echi del Laurel Canyon, ballate cosmiche, “If I could only remember my name” e il fantasma di Dennis Wilson che stanno ancora cercando nel Pacific Ocean Blue.

C’è tutto “Fanfare”, splendido disco del 2013, riproposto quasi completamente, con qualche gemma recuperata dal precedente, lo stupendo “Gentle Spirit” del 2011.

 

“Oh, let me love you, is all that I can do, not to touch you”.

 

C’è anche l’altro chitarrista, Omar Velasco, che non sbaglia una nota, e il bassista Dan Horne, che suonano quasi a occhi chiusi, un suono caldo e pastoso, e non aprono bocca, non si muovono nemmeno, sembrano finti.

C’è il “Bello essere qui” di rito, e il “Grazi” in italiano.

L’unico che stasera sembra non esserci è lui, Jonathan Wilson, il più sexy menestrello psichedelico del pianeta, che somiglia sempre di più all’adesivo del vagabondo con la chitarra delle Vespe anni ’80: barba lunga, codino, tshirt e spolverino e scarpe di pezza da indiano. Dopo due ore esatte di concerto senza sangue sui polpastrelli finalmente alza a manetta il volume della Telecaster ’57 costruita da lui stesso e spara una dilatatissima “Valley of the silver moon”. Ma ormai è tardi. Anche se il pezzo è il trippone da dieci minuti che tutti aspettavamo, è ora di andare a nanna un po’ delusi. Come quando esci con la donna più sexy del pianeta, e quella non te la dà.

 

“I’m writing you from the valley of the silver moon.

I’m riding you now from the valley of the silver moon”

 

Addirittura c’è qualcuno che si alza e finisce sotto il palco per il bis, ma è troppo tardi, Jonathan, la prossima volta ci vediamo all’aperto, magari nel deserto, per un bel trippone tutti insieme. E poi a nanna.

 

 

 

 

© 2014 vittorio bongiorno

 

da: http://ilmucchio.it/articoli/musica/live-jonathan-wilson/

MEDITARE, DORMIRE E SOGNARE (FORSE) CON LA MUSICA DI JEFF BRIDGES. by vittorio bongiorno

Io odio dormire. Sempre odiato. E anche mio figlio. Per questo ho passato i primi dieci anni della sua vita a raccontargli storie e suonare per non farlo dormire. Per resistere alle tenebre, e illuderci di essere vivi.

 

 

“Il mondo è pieno di gente inquieta che ha bisogno di dormire. Per questo ho messo nelle mie Sleeping Tapes suoni intriganti, rumori e altre cosette che ti aiutino a riposare. Distenditi, chiudi gli occhi e addormentati”, spiega Jeff Bridges in apertura del sito psichedelico dreamingwithjeff.com. È qui che si può scaricare in mp3 l’intero nuovo album dell’attore musicista, reso icona planetaria dai fratelli Coen ne Il grande Lebowski, il fricchettone californiano che ha ispirato addirittura il “Dudeism”, il culto pagano che rivendica pace, marijuana e White Russian drink. In puro stile old school si può anche comprare un ghiotto vinile dorato e perfino un’audiocassetta. Il tutto gratis, o con una donazione libera, il cui ricavato è destinato integralmente all’associazione NoKid Hungry che combatte la fame dei bambini in America. [...]

 

 

da Mucchio 729, Aprile 2015

 

http://ilmucchio.it/

LA TIGRE È LIBERA: C’MON TIGRE LIVE A BOLOGNA by vittorio bongiorno

Dice che questi C’Mon Tigre non si sa nemmeno chi sono, da dove vengono, forse uno da Ancona, l’altro chissà. Forse non sono manco italiani (meglio per loro), o forse no. Fuori c’è la neve, sporca di asfalto e di Bologna, dentro profumo di cannella, zenzero e sgombro affumicato. Bevo un pessimo gin e aspetto sul ciglio della strada per Rabat: quando la chitarra affilata entra sinuosa come un serpente si alza il lamento in lontananza, qualcosa si muove sotto la sabbia. Finalmente un po’ di calore, in questa valle desolata. “Ma chi sono questi? Le Tigre?”, mi chiede una tipa che fuma accanto a me. Tatiana. Faccio di sì con la testa, non mi distrarre cazzo. Ondeggio con la musica, come non mi capitava da anni: Federation Tunisienne De Football è un richiamo alla danza: al centro c’è questo sole che pulsa, e tutto intorno piccoli mondi che si attraggono e respingono. “Non si capisce niente con questo microfono”, fa Tatiana. “È questo il bello”, dico. Al centro del palco due muezzin: chitarra elettrica uno, Farfisa e microfono distorto l’altro, quello con la barbetta. È un invito lento, ancestrale, ossessivo. Per l’occasione i due beduini del deserto post rock hanno chiamato a raccolta una manciata di musicisti da tutto il Mediterraneo, con un carico di sassofoni, trombe, tromboni, vibrafoni e batterie (elettroniche e non). È una famiglia ambulante e mutaforma. Tatiana: “Ma che musica fanno?”. Bevo un sorso di gin schifoso e socchiudo gli occhi su Fan For A Twenty Years Old Human Being e non le rispondo. Trombe come proboscidi di elefanti effervescenti, e batterie elettroniche come cavalcate di gazzelle, e chitarre come lamiere arrugginite al sole. È un ritmo che monta, come l’emozione di un circo antico, con l’equilibrista zoppo che perde il tempo e cade dalla fune, e si rialza, e non sai se l’ha fatto apposta o è caduto per davvero.

Riprendono il tempo, cambiano ritmo, da più veloce a più lento, tutto in levare, ed entrano i fiati, ed è un colpo al cuore. “È tutto così circolare”, dice Tatiana, “ed è questo il bello”. Le faccio cenno di sì con gli occhi a fessura, anche se non l’ho mai vista prima. Vado a farmi un altro giro di pessimo gin, e quando torno sul palco è buio pesto, senza stelle. La luna fa luce sull’artista Danijel Zezelj, genio con coppola in testa e sangue sulle mani: apre la gabbia alla Tigre, che gronda colore acrilico sulla coda di A world of wonder ossessiva e ruggente.

 

C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…

 

È sussurrato a due voci, è un lamento, è una fanfara che annuncia a tutti i pellegrini che la tigre è libera, che da oggi è questo l’animale sacro, e non la si può più uccidere. Solo venerare, cullati dal suo andamento modale, quando passa sorniona per strada sotto il suo mantello bianco e nero.

 

C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre… C’mon Ti-gre…

 

È l’imprevisto inatteso, è un the con biscotti psichedelici, è tabacco aromatizzato al fuzztonic, è un invito alla danza dell’anima. “È questo il bello”, fa Tatiana, “Ma non mi chiamo Tatiana”. “Ah no?”, dico.

Sul commiato di Malta gli ottoni suonano languidi, e la chitarra vibra e dice che la carovana sta per partire per un lungo viaggio, ma che tornerà, con spezie fresche e odori d’oriente e occidente (mescolati in una lattina di olio di camion esausto). Abbiate cura della Tigre. Alla fine sono tutti felici. Anche io, nonostante il gin.

 

 

Foto © Angelica Muzzi

 

 

https://youtu.be/6-RsBSYondk